La violenza sulle donne ha spesso le chiavi di casa


Ancora stragi che si consumano nell’incapacità di ascolto di donne e dei loro bambini, vittime della cultura del possesso che legittima un comportamento maschilista e violento.
Colpiti, in nome di un “mie e di nessun altro“, bambine, ragazze, madri che hanno appreso sulla propria pelle che questo tipo di assassini, quelli che fanno violenza di genere, sono soprattutto familiari, ex mariti, ex fidanzati, persone che vengono dipinte come sofferenti perché non si può mettere in discussione il concetto di famiglia “naturale”.
Ma cosa c’è di “naturale” in una dimensione in cui, più che in altre situazioni, si muore di morte violenta?
Combattere la violenza manifesta significa oggi prendere il problema alla radice: snidare la cultura che la produce, incarnata nelle istituzioni, nelle condizioni lavorative, nella morale così come nelle immagini della pubblicità e dello spettacolo, nelle norme non scritte della tradizione e nei saperi colti.
Vuol dire soprattutto riconoscere, fuori delle ideologie che ancora esaltano la famiglia come rifugio, sicurezza, garanzia di cure e di affetti, quello che è ormai sotto gli occhi di tutti, documentato da resoconti internazionali e dalle cronache quotidiane: l’annodamento perverso di amore e odio, di legami di dipendenza, indispensabilità reciproca e strappi volti ad affermare l’autonomia individuale.
È un problema culturale, certamente, e, ogni volta che se ne parla a scuola, respiro da insegnante la necessità di discussione, il bisogno che hanno i ragazzi e le ragazze di raccontarsi e mettersi a confronto su quelle che sono relazioni già profondamente intrise di stereotipi sessisti. sono proprio questi stereotipi a precludere a uomini e donne di vivere in libertà.
Ma da cittadina ritengo che sia soprattutto un problema delle istituzioni.

La verità è che nei nostri tribunali i linguaggi e le sentenze sembrano troppo spesso mirate a negare la violenza, attenuando le responsabilità degli uomini e mettendo in dubbio la credibilità delle donne che, in qualche modo, si ritrovano a passare da vittime a imputate.
Nel nostro Paese, è prima di tutto un problema di “riconoscimento della violenza” da parte di chi opera nei contesti giuridici, che causa di conseguenza la sottovalutazione del rischio per tante donne che hanno denunciato violenza o di quelle che non lo fanno per paura di non essere sufficientemente tutelate.
Non è accettabile che in Italia di fronte alla legge si confonda ancora violenza con conflitto e ogni volta, caso per caso, bisogna spiegarne la differenza.
Lo stato ha il dovere di intervenire con urgenza e con responsabilità agendo sul piano della sensibilizzazione, dell’educazione e della prevenzione sul piano legislativo e sul piano della protezione, della formazione di tutte le istituzioni coinvolte, non per ultimo nel linguaggio dei media. Solo quando le istituzioni prenderanno seriamente in considerazione il fatto che il femminicidio è il reato più diffuso al mondo, le donne non continueranno a morire.



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